La conquista femminile delle quote 150 anni di scalate in montagna
dal blog del Corriere della Sera
La storia dell’alpinismo è una storia (molto) al maschile. Sono pochissime le donne protagoniste, persone uniche e speciali, capaci di primeggiare in un mondo maschile (e maschilista) dove ardore, coraggio e forza fisica erano associate all’uomo.
Avvicinarsi alle alte quote per una donna era considerata cosa impossibile. Naturalmente per ovvi motivi fisici e mentali (alcuni medici nel XVIII sostenevano addirittura che lo sforzo avrebbe portato alla sterilità). Eppure nel corso degli anni gli schemi si rompono anche se stereotipi e pregiudizi sono duri a cadere.
Proprio il prossimo 16 agosto cade il 150° anniversario della prima ascensione femminile al Monviso. Nel 1864 raggiunse la vetta Alessandra Boarelli, moglie del sindaco di Verzuolo e con lei raggiunse la cima anche un’altra donna, la damigella quattordicenne Cecilia Fillia, figlia di un notaio. Ma l’impresa (indubbiamente notevole per quegli anni) fu accolta così dal quotidiano La sentinella delle Alpi:
«Ora che è provato che perfin le donne raggiunsero quella punta culminante, che fino all’anno scorso si credette inaccessibile, chi sarà quel touriste che si perderà all’atto della prova?».
Prima di lei altre donne avevano dimostrato il loro amore per la montagna e in qualche modo, una dopo l’altra cominciarono a cancellare quella presunta diversità di genere che voleva le donne incapaci di affrontare le massime difficoltà alpinistiche.
La prima che mise piede sul Monte Bianco (e che incredibilmente arrivò in cima) fu Marie Paradis, cameriera in una locanda a Chamonix, che seguì un po’ per gioco un gruppetto di amici. Non aveva però alcuna esperienza alpinistica, non era abituata alla quota. Lei stessa raccontava con ironia: «Mi trascinavano, mi spingevano, sbuffavo come una gallina spennata. Chiedevo di essere sbattuta in un crepaccio». Ma niente, a furia di tirarla e portarla vetta fu. Era il 14 luglio 1808. Non si può dire che Marie Paradis abbia scalato il Monte Bianco, la sua non fu un’impresa alpinistica, ma un primo passo in questa direzione.
La vera pioniera dell’alpinismo al femminile è da tutti considerata Henriette d’Angeville. Il 3 settembre 1838 a 44 anni di età l’alpinista ginevrina raggiunse la vetta del Monte Bianco, vestita con una gonna , con l’aiuto di un bastone e dodici tra guide e portatori. Anche qui l’impresa fu commentata con un misto di sorpresa e toni sprezzanti. Una guida di Chamonix al suo ritorno le disse:
«Avete avuto il grande merito di andare sul Monte Bianco, ma bisogna convenire che il Monte Bianco ne avrà molto meno ora che anche le signore possono scalarlo».
Nel 1871 toccò a Lucy Walker passare alla storia come la prima donna a scalare il Cervino. E poi ci sono Beatrice Tomasson, facoltosa donna inglese che nel 1901 con due guide aprì per prima la parete Sud della Marmolada; Mary Varale, tenace e forte alpinista che dovette lottare con il maschilismo imperante nella prima metà del Novecento. Arrivò al punto di dimettersi dal Cai perché fu rifiutata la medaglia d’oro al valore atletico non solo a lei, ma anche ad Alvise Andrich, reo di essere il suo compagno di cordata. Paula Wiesinger, grande scalatrice altoatesina degli anni Trenta, una delle pochissime donne a quei tempi capace di affrontare un sesto grado come capocordata. è passata alla storia anche l’impresa di 100 audaci alpiniste che il 27 luglio 1960, con una temperatura di 7 gradi sotto zero e venti fortissimi raggiunsero riunite in diverse cordate la punta Gniffetti del Monte Rosa, a 4459 metri. Era una notizia. I giornali dell’epoca ne parlarono a lungo perché nell’immaginario collettivo certe cose solo gli uomini potevano farle. E anche in questo non mancarono commenti maschilisti e sarcastici.
In tempi più recenti, una delle figure più eccezionali ed emblematiche degli anni Ottanta è quella di Alison Hargreaves, alpinista inglese, morta nel 1995 a 33 anni insieme ad altri sette alpinisti dopo aver salito il K2. «Ero incinta, non malata» rispondeva a chi la criticava per aver salito da sola la Nord dell’Eiger quando era incinta di sei mesi. Era una ribelle, amava la montagna e i suoi figli, ma la viveva l’ansia di voler dimostrare al mondo il suo valore. Pochissimi l’hanno compresa, pochi hanno rispettato le sue travagliate scelte.
Per anni le donne sono state solo le mogli degli alpinisti. Aspettavano e pregavano per il ritorno degli amati. Lentamente, ma progressivamente si sono inserite in questo affascinante mondo della ma spesso, ancora oggi, devono affrontare la sfida del pregiudizio. Moltissime le alpiniste dei giorni nostri che meriterebbero di essere ricordate, impossibile citarle tutte: dalla nostra Nives Meroi che ha scalato undici Ottomila alla giapponese Junko Tabei, prima donna a raggiungere la vetta dell’Everest; dall’austriaca Gerlinde Kaltenbrunner, prima donna al mondo a scalare tutti gli Ottomila senza l’aiuto dell’ossigeno a Ines Papert, fortissima ghiacciatrice tedesca.
La passione per la montagna porta molti a dedicarsi ad essa a tempo pieno e a trasformarla nella professione di guida alpina. Ma quante sono le donne guide alpine oggi? I numeri forniti dal Collegio Nazionale Guide Alpine parlano da soli. Sono solo 12 le guide alpine donne su 1.060. Tre le donne aspiranti guida (su 108). Gli accompagnatori di media montagna (a cui compete accompagnare i clienti su terreni escursionistici dove non sono richieste tecniche alpinistiche) sono in tutto 177, le donne appena 28.
Numeri esigui. Perché? «La montagna è senza dubbio un ambiente molto duro e anche con tutta la preparazione e le precauzioni comporta sempre un rischio – racconta Renata Rossi, innamorata della Val Bregaglia, prima donna a diventare guida alpina in Italia nel 1984 – e all’inizio ricordo di aver pianto tante volte di nascosto perché c’era tanta diffidenza, una donna non era considerata all’altezza. Oggi è cambiato molto, le donne sono più facilmente accettate. Resta il fatto che conciliare la famiglia con questa professione non è facile. Ammiro chi riesce a farlo e credo sia una cosa possibile. Io sono sposata con una guida alpina, per scelta abbiamo deciso di non avere figli. Non sarei riuscita a fare quello che faccio con un figlio». A lei il merito di aver spalancato una porta. Dopo sono arrivate tutte altre donne.
Anna Torretta, 43 anni, una figlia di 20 mesi, pluri-campionessa italiana di arrampicata sul ghiaccio e fortissima guida alpina di Courmayeur non ha dubbi: «L’alpinismo al femminile non è incoraggiato. Di solito le donne si trovano in questo mondo di riflesso perché mogli, sorelle, figlie di una guida alpina. Raramente prendono la responsabilità di una cordata. Da anni organizzo corsi per sole donne, forse a qualcosa serve, ma la verità è che nel corpo istruttori non ci sono donne. Io ci ho provato tre volte, ci riproverò, non mi fermo qui. Si parla tanto di quote rosa, credo che proprio che ce ne sia bisogno soprattutto nella professione di guida alpina, dove siamo così poche».
Contro i pregiudizi si è battuta tanto anche Marica Favè, 40 anni, guida alpina della Val Di Fassa, una figlia di tre anni ricorda le tante difficoltà nel seguire questo percorso: «Mia madre oggi ha 80 anni ed è fiera di me. Ma all’inizio mal sopportava questa mia scelta. Ma dove vai, che cosa fai…mi ripeteva sempre. Questo atteggiamento prevenuto era comune a molti, le donne, incredibilmente, per prime. La cosa più fastidiosa è stata che all’inizio mi passavano solo le gite degli anziani che dovevano raggiungere le malghe. Poi, quando dimostri di valere le cose migliorano, ma che fatica! Oggi sono guida alpina e mamma, orgogliosa di noi e contenta così».